giovedì 12 dicembre 2013


 DOMENICO RYOLO

Padre dell'archeologia di Milazzo - ne conosceva perfettamente anche la geologia - profondo cultore dell'architettura e dell'arte cittadina (scrisse la prima guida turistica della città), presidente della locale associazione Agricoltori (figurava tra i più importanti produttori vinicoli ed orticoli della Piana), il barone ing. Domenico Ryolo Di Maria, cui è intitolato il Museo Etnoantropologico allestito nell'ex Carcere Femminile, viene qui ricordato dalla nipote Laura in una suggestiva quanto emozionante sequenza di ricordi scritti qualche anno fa; ricordi che restituiscono il profilo intimo e privato di questo illustre milazzese.
 

Io credo che Domenico Ryolo abbia ben meritato il suo posto tra i cittadini illustri di Milazzo; i suoi studi e le scoperte in campo archeologico restano un punto di riferimento per gli studiosi e per quanti vogliono approfondire la storia antica della città e della provincia messinese. Di lui, studioso e ricercatore, testimonia l’Antiquarium Archeologico che gli amici-colleghi hanno voluto dedicargli, e che conserva alcuni dei risultati della sua appassionata e instancabile attività volta a restituire a Milazzo buona parte del suo antico passato. 

Per me Domenico Ryolo era lo zio Mimì e, nel ricordarlo, la prima immagine che immancabilmente ho di lui mi riporta molto indietro nel tempo, quando noi nipoti andavamo a trovarlo a “Camiòli", dove abitava insieme ai fratelli, Francesco Paolo, lo zio Ciccio, e la zia Maria. Erano piacevoli visite. Lo zio ci accoglieva sempre sorridente e scherzoso, ma noi sapevamo che a pranzo non saremmo sfuggiti alle sue interrogazioni di storia. Le date ci lasciavano ammutoliti, ma lui era un insegnante molto indulgente e riusciva anche ad interessarci con storie di ritrovamenti archeologici, di gesta di antichi eroi o degli dei dell’Olimpo; insomma ci era molto simpatico, e senza sapere, ovviamente, di psicologia avevamo intuito che proprio il suo amore per il mondo antico e per il suo lavoro di ricerca era la causa del suo modo di essere e di quel piacere che traspariva inevitabilmente nel suo raccontare. Ricordo ancora quando un giorno, noi bambini pensammo di fargli uno scherzo e dopo aver confezionato una piccola anfora di terra, gliela mostrammo raccontando di averla trovata sepolta in campagna; lo zio, divertito, fece finta di crederci. 

I miei ricordi si legano sempre a quella casa di campagna dal nome un po’ strano: Camioli; l’amata casa di villeggiatura della nonna Carolina, la madre dello zio Mimì, che ad ogni estate vi si trasferiva da Milazzo con tutta la numerosa famiglia. La costruzione semplice e lineare si affacciava su un vasto giardino dalle aiuole piene di fiori, rose soprattutto, che dovevano piacere molto anche allo zio Mimì, tanto che ne aveva catalogato e descritto le numerose varietà. Quasi adiacente all’abitazione vi erano il pozzo e il grande palmento; teatro questo, ogni settembre, dell’avvenimento più atteso e più importante per l’economia familiare, la vendemmia. Poco più lontano, in fondo al giardino, la chiesetta di famiglia, di stile classico, che oggi, anche se offesa dal tempo e dalle incursioni dei ladri, è l’ultima testimonianza della vita e degli affetti di quel nucleo familiare che un tempo aveva abitato a “Camioli”. 

Lo zio Mimì era nato a Milazzo nel 1895, da Cesare Ryolo e da Carolina Di Maria Brunaccini ed era il primo di 5 fratelli: Francesco, Casimiro, Rosalia, Antonino (mio padre). Non ricordo la nonna, mancata nel 1945, ma la lettura della sua corrispondenza quasi giornaliera con il fratello Casimiro me l’ha resa ugualmente familiare; era certamente una madre tenerissima anche se energica, che spesso rivelava la fatica e la difficoltà di gestire la numerosa famiglia, soprattutto dopo la morte del marito. Sull’educazione dei figli però la nonna non transigeva ed era disposta a qualunque sacrificio economico. Così scrive nel 1912 alla cugina Laura: “ I miei figli, per la grazia di Dio, tutti mostrano di avere dei buoni sentimenti, speriamo che la buona educazione rinsaldi questi innati sentimenti e li faccia riuscire quali li vuole Dio, la famiglia e la patria: buoni e virtuosi”; decise così di mandarli in collegio: i maschi furono iscritti alla Badia di Montecassino e le femmine al Sacro Cuore di Palermo. Per i ragazzi soprattutto la vita alla Badia dovette essere molto austera, tuttavia studiarono con buon profitto ottenendo sempre lusinghiere valutazioni mentre il giovane Domenico si distingueva per una notevole attitudine nello studio del pianoforte. D'altronde, l’amore per la musica doveva essere comune in casa Ryolo, come starebbero a dimostrare i tanti spartiti diligentemente conservati che sembrano essere stati usati da quasi tutti i componenti la famiglia, dalla nonna dello zio, Rosalia Ricciardi, alla sorella Rosalia che era, lo ricordo bene, un’ eccellente pianista. Ma un buon numero di ballabili e “le ultime novità” degli anni 20-30 tra Mozart, Chopin e Beethoven stanno anche a testimoniare spensierate riunioni con i fratelli Ryolo al piano. 

Nel 1915 la Patria, al cui rispetto e amore i ragazzi erano stati educati, li richiese ben presto; Domenico e Francesco furono i primi tra i fratelli a partire per il fronte. Domenico prese parte a varie azioni belliche quale ufficiale di artiglieria e comandante della 609 Batteria. Finita la guerra, ebbe conferita la Croce di guerra e in seguito, come ex combattente, l’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto. Di questa drammatica esperienza lo zio Mimì, come pure i suoi fratelli, non ci parlarono mai, eppure si erano comportati con onore e responsabilità e ne avrebbero avute di storie da raccontare, ma troppi giovani avevano sacrificato la loro vita, tanti i loro amici. Lo zio conservava però le medaglie, alcuni appunti logistici scritti a matita nelle trincee e parecchie foto; mi colpiscono in particolare quelle che lo ritraggono con i commilitoni in marcia su di un ripido sentiero di montagna, o quando durante una ritirata, trasportano faticosamente a braccia un enorme cannone. 

Finita la guerra, lo zio Mimì, che nel 1913 si era iscritto al Politecnico di Milano, potè riprendere gli studi e conseguire nel 1922 la laurea in Ingegneria industriale-meccanica. Insieme alla libera professione inizio’ anche a dedicarsi a quella passione che sin da giovane aveva manifestato: le ricerche storiche, soprattutto nell’ambito della Sicilia e gli studi di numismatica. Dall’illustre zio, il malacologo palermitano Tommaso Di Maria marchese di Monterosato , il giovane Domenico aveva sicuramente ricevuto un esempio di rigore nello studio e di amore per la scienza. Tanta tenacia ed entusiasmo furono premiate nel 1940 dalla sua prima importante scoperta: l’ubicazione della località Longane dove, nel 269 a.C. si era svolta la battaglia tra Mamertini e Siracusani. Serio e responsabile nello studio e nella professione, il giovane Domenico era anche dotato di buon carattere, allegro e socievole, e di un aspetto più che attraente. Noi nipoti eravamo certi che doveva aver fatto palpitare più di una volta il cuore del gentil sesso. Era sicuramente un romantico lo zio, e amava scrivere poesie dedicate a leggiadre a forse immaginarie fanciulle; universitario a Milano, aveva vissuto un amore importante. Alcune lettere e una foto di donna con dedica rivelano che dovette essere un sentimento intenso e pieno di passione. Un’ amicizia “affettuosa” lo legò in seguito per molti anni a Maria M., e fu causa indiretta di un drammatico incidente. Era il 13 luglio del 1934 e lo zio Mimì e la sua amica si stavano recando in auto a Ravenna, quando la macchina, guidata dalla donna, si ribaltò per cause ignote, provocando gravissime ferite allo zio, in seguito alle quali subì l’amputazione di tre dita della mano sinistra. Fu una grave menomazione che egli affrontò con coraggio, e anche se dovette rinunciare al pianoforte, si dedico’, forse con ancora maggiore impegno, alla sua passione per l’archeologia. 

Nel 1940 fu dapprima nominato Ispettore Onorario di Milazzo e nel 1950 fu Ispettore Onorario per i Monumenti, le Antichità e le Opere d’Arte dell’intera provincia di Messina. Numerose furono in questo periodo le sue scoperte, tra le quali una necropoli a incinerazione nel territorio di Milazzo e monumenti paleocristiani e arabi. Molti dei suoi studi furono pubblicati. Scomparsa la madre e sposatisi Casimiro, Rosalia e Antonino, lo zio e i fratelli Francesco e Maria si domiciliarono a Camioli; Francesco, ingegnere anche lui, era uno scapolone convinto e irriducibile. Non si era sposato perché, come ci spiegava con un sorrisetto divertito, il matrimonio era la tomba dell’amore, e d’altra parte, le condizioni minime che aveva sempre posto per convolare a nozze, erano “case separate”. Altro che i separati in casa di oggi…Anche Maria, terziaria francescana, doveva essere stata poco incline al matrimonio, e si era dedicata alla gestione familiare e alle cure materne dei fratelli e di noi nipoti. Sembrava che la loro vita dovesse continuare a scorrere su binari tranquilli e prevedibili, finchè un giorno ai fratelli riuniti per il pranzo, lo zio Mimì comunico’ di avere preso la decisione di sposarsi. La notizia li colse di sorpresa, ma lo zio Ciccio prontamente rispose: “Sarà la benvenuta”. E così fu. La sposa, Vittoria dei marchesi Sersale di Napoli fu il vero grande amore dello zio Mimì; il matrimonio fu celebrato nel 1954. Francesco e Maria si trasferirono a Milazzo lasciando agli sposi la villa di Camioli. La zia Vittoria si divertiva a raccontare del suo primo ingresso in quella casa , quando lo zio, quasi emulo di Barbablù, le diede piena disponibilità di tutte le stanze, tranne che di una, chiusa a chiave. Era il suo studio; una stanza invero particolare: dappertutto carte, documenti, disegni, fotografie, e tanti libri, che, non trovando più posto negli scaffali, salivano come tante colonnine dal pavimento. Vietato entrare e assolutamente vietato “mettere ordine”. Il matrimonio di Mimì e Vittoria fu una continua luna di miele e la fedele e affezionata Anna, che per tanti anni fu nella loro casa, non ricorda un litigio o una parola sgarbata tra loro, ma sempre e solo affettuosità. Lei lo accompagnava nei convegni e quando erano alla villa, lo zio si dedicava liberamente ai suoi studi, mentre lei amava dipingere con i pastelli; era un’eccellente ritrattista, soprattutto di bambini. 

Lo zio si è spento il 2 dicembre del 1988. Negli ultimi anni la sua memoria, un tempo così lucida e allenata, cominciava a subire le offese della vecchiaia; eppure verso la fine, mentre la sua mente a volte pareva perdersi e date, avvenimenti, battaglie sembravano ora svanire ora confondersi in un’unica nebulosa , il suo amore per la moglie superava ogni cedimento. Fino all’ultimo lo zio Mimì ci sembrava veramente consapevole di una cosa sola, che quella donna costantemente accanto a lui era la sua Vittoria, e le si rivolgeva con la dolcezza e il sorriso di sempre (Laura Ryolo).